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Stalking sul posto di lavoro; il datore che acuisce ansia e timore può essere condannato

Il tratto che caratterizza il mobbing è rappresentato dal fatto che i comportamenti vessatori, rivolti nei confronti del lavoratore, sono reiterati, duraturi e finalizzati a lederne l’integrità psicofisica o ad estrometterlo dall’azienda o dall’ente in cui svolge la propria attività lavorativa.
Il mobbing non è considerato un istituto di diritto penale, perché non è presente all’interno del codice penale un articolo che lo disciplina.
Una sentenza che “apre la strada a una più efficace repressione di comportamenti vessatori che si protraggono ben oltre l’ambiente lavorativo”. La Corte ha, infatti, sottolineato che “il mobbing, quando esercitato con modalità vessatorie reiterate e idonee a determinare un perdurante stato di ansia o di timore nella vittima, può essere ricondotto alla fattispecie dello stalking“.
Il caso specifico – che ha portato a questa conclusione – riguarda un docente universitario accusato di una serie di reati, tra cui molestie sessuali nei confronti delle studentesse e abuso di autorità. Le azioni del docente, essendo state condotte in modo prolungato, hanno non solo configurato una situazione di mobbing, ma sono state considerate a tutti gli effetti come stalking in ambito lavorativo, fenomeno altrimenti noto come stalking occupazionale.
Quindi, è emerso che i comportamenti vessatori, posti in essere dal docente universitario indagato, hanno generato un ambiente di lavoro ostile e insostenibile. Tra le condotte denunciate e riscontrate in giudizio figurano la marginalizzazione professionale e l’adozione di atteggiamenti intimidatori e persecutori nei confronti degli specializzandi dissidenti.
La Cassazione ha evidenziato come tali comportamenti abbiano “superato il livello di ordinaria conflittualità presente in un ambiente di lavoro” e si siano concretizzate in un “accanimento psicologico” ai danni delle vittime tale da configurare, per l’appunto, gli estremi dello stalking occupazionale.

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Volo in overbooking, spetta un risarcimento fino a 600 euro e il rimborso del biglietto

Vediamo quali sono i diritti del viaggiatore e le soluzioni possibili in caso di overbooking;
Gli aeroporti sono già gremiti di viaggiatori, pronti a imbarcarsi sull’aereo per raggiungere la meta designata per le proprie vacanze.
C’è, però, un fattore che può mettere a rischio un viaggio quando si decide di utilizzare l’aereo come mezzo di trasporto.
Stiamo parlando dell’overbooking, ovvero quella prassi per cui alcune compagnie aeree – normalmente le compagnie low-cost – vendono più biglietti dei posti effettivamente disponibili. Ciò comporta il rischio che tutti i passeggeri si presentino effettivamente il giorno della partenza, con la conseguenza che alcuni di loro potrebbero essere costretti a cambiare volo, ritardando il proprio viaggio.
L’ultimo episodio riguarda un passeggero del volo Ryanair da Bergamo a Palma di Maiorca, che è andato in overbooking a causa di un problema tecnico durante l’acquisto del biglietto online, non rilevato al momento del check-in al gate.
Per evitare ritardi nel volo, la compagnia ha offerto ad uno dei passeggeri un risarcimento di 250 euro e un volo gratuito. In cambio, lo sfortunato viaggiatore ha accettato di scendere dall’aereo. Il caso è sicuramente particolare, dal momento che tali problematiche di solito si verificano durante la fase di check-in e non quando, invece, i passeggeri sono già a bordo del velivolo. Purtroppo, però, soprattutto durante la stagione estiva, il fenomeno dell’overbooking è piuttosto comune. Questo accade perché le compagnie aeree vendono più biglietti rispetto ai posti disponibili, confidando in un certo numero di assenze per massimizzare i profitti.
Di solito, infatti, l’overbooking viene rilevato già al momento del check-in. In questa fase, alcuni passeggeri vengono invitati a rinunciare volontariamente al volo in cambio di un compenso, posticipando però la partenza mediante ricollocamento su un altro volo.
Il passeggero, oltre alla compensazione, ha la possibilità di scegliere tra tre opzioni:
il rimborso del biglietto per la parte di viaggio non effettuata;
l’imbarco su un volo alternativo il prima possibile;
l’imbarco su un volo successivo, se più conveniente.
Se accetta di viaggiare in una classe inferiore, la compagnia deve rimborsare dal 30 al 75% del prezzo del biglietto, a seconda della distanza del volo.
Le compagnie forniscono i moduli per i rimborsi. In caso di mancata risposta nel termine di sei settimane, il viaggiatore potrà presentare un reclamo all’ENAC entro 26 mesi dalla data del volo.
Inoltre, la compagnia deve fornire assistenza ai viaggiatori che abbiano subito l’overbooking. In particolare, gli stessi avranno diritto ad usufruire di pasti e bevande, in proporzione all’attesa, sistemazione in un albergo (quando ad esempio il volo parta il giorno successivo), trasferimenti da e verso l’aeroporto e, infine, due chiamate telefoniche o messaggi. Tuttavia, nell’era dei cellulari, quest’ultimo beneficio è ormai considerato meno rilevante.

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Si può essere licenziati per uso personale di Internet sul lavoro?

I lavoratori subordinati hanno l’obbligo di dedicarsi al proprio lavoro per tutta l’arco dell’orario lavorativo, seguendo le istruzioni del datore di lavoro e svolgendo i compiti con la massima cura. Durante l’orario di lavoro, un dipendente che si distrae navigando su Internet rischia di non adempiere ai suoi doveri.
Usare internet per scopi personali durante l’orario di lavoro costituisce una violazione degli obblighi contrattuali. Alcune aziende stabiliscono queste regole attraverso policy interne o regolamenti informatici, che spesso vietano l’uso dei social o ne limitano l’uso a brevi pause, a condizione che non interferisca con il lavoro.
Nella maggior parte dei casi, l’utilizzo di Internet per scopi personali durante l’orario di lavoro è considerato una violazione disciplinare.
Ma può portare al licenziamento?
Secondo la legge italiana, la sanzione disciplinare deve essere proporzionata alla gravità dell’infrazione. Navigare sui social per pochi minuti non è paragonabile a passare ore su Internet per motivi personali. Tuttavia, in situazioni gravi, il datore di lavoro può procedere con il licenziamento per giusta causa, se l’infrazione è così grave da impedire la continuazione del rapporto di lavoro.
Infatti, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di una dipendente che aveva passato più tempo su Internet che a lavorare. La cronologia del suo computer dimostrava un uso eccessivo per scopi personali, ben oltre il tollerabile.
Un’altra sentenza del Tribunale di Bari ha giudicato legittimo il licenziamento di una dipendente che, durante l’orario di lavoro, utilizzava il cellulare aziendale per accedere al proprio profilo Facebook e svolgere attività non autorizzate. La dipendente condivideva anche informazioni riservate con concorrenti dell’azienda, violando gravemente i doveri di correttezza e buona fede.
Il comportamento dei lavoratori su Internet ha portato a una serie di altre sentenze. Per esempio, la Cassazione ha giudicato legittimo il licenziamento di un dipendente che aveva pubblicato commenti offensivi sul datore di lavoro su Facebook, violando così l’obbligo di fedeltà. Un’altra sentenza ha confermato il licenziamento di un lavoratore che, durante un’assenza per malattia, aveva postato foto mentre suonava a un concerto, dimostrando di non essere malato. In conclusione, l’uso di Internet per scopi personali sul lavoro può comportare sanzioni disciplinari e, nei casi più gravi, il licenziamento. Tuttavia, i datori di lavoro devono rispettare le norme sulla protezione dei dati e sulla privacy quando raccolgono prove per contestare comportamenti scorretti dei dipendenti.

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Sosta irregolare anche se l’automobilista incorre in un parcometro privo del pagamento con carta di credito

Scenario dell’episodio è la provincia di Ravenna. A finire nel mirino della Polizia locale di un Comune è una vettura rinvenuta parcheggiata sulle strisce blu ma priva del necessario tagliando per la sosta a pagamento. Inevitabile il verbale redatto dagli uomini della Polizia locale, verbale che sanziona la sosta dell’autovettura in area parcometro, però senza esposizione del necessario ticket, verbale cui fa seguito l’ingiunzione ad hoc emessa dalla Provincia. Per il Giudice di Pace, però, la sanzione è illegittima, poiché «il parcometro non era abilitato al pagamento con carta di credito», come lamentato dal proprietario della vettura. Di parere opposto, invece, i giudici del Tribunale, i quali ritengono legittimo l’operato della Polizia locale e osservano che «all’epoca dei fatti, i parcometri installati sul territorio comunale erano tutti abilitati a ricevere pagamenti anche con carte di credito» mentre il proprietario della vettura «non ha contestato un cattivo funzionamento dell’apparecchiatura».

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Solo l’amministratore può opporsi al decreto ingiuntivo emesso contro il Condominio per debiti da beni comuni

Il Collegio ribadisce il principio secondo cui «il singolo condomino non ha autonoma legittimazione a proporre opposizione a decreto ingiuntivo emesso a carico del Condominio per i debiti derivanti dalla gestione dei beni comuni, spettando essa unicamente all’amministratore». La decisione della Corte viene a seguito di un ricorso presentato da una condomina avverso la sentenza della Corte di Appello che aveva rigettato l’opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei confronti del Condominio, sull’assunto che «il decreto ingiuntivo era stato emesso nei confronti del Condominio, il quale era l’unico legittimato ad opporvisi e che ai singoli condomini può essere riconosciuta una legittimazione processuale autonoma soltanto nelle controversie in materia di diritti reali concernenti le parti comuni dell’edificio condominiale». Secondo la ricorrente, però, la decisione è errata poiché contrasta con la normativa dettata in materia di condominio, soprattutto per quelle disposizioni che concernono l’attività del condominio. La Corte di appello di Salerno dichiarò il difetto di legittimazione della attrice alla domanda, affermando che il decreto ingiuntivo era stato emesso nei confronti del condominio, il quale era l’unico legittimato ad opporvisi e che ai singoli condomini può essere riconosciuta una legittimazione processuale autonoma soltanto nelle controversie in materia di diritti reali concernenti le parti comuni dell’edificio condominiale. Annullò quindi la decisione impugnata e dichiarò definitivo il decreto ingiuntivo per mancata opposizione.

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Apprendistato nullo se il piano formativo individuale non è scritto

La Corte di Cassazione, con la sentenza 13 marzo 2024 n. 6704, ha deciso che è nullo il contratto di apprendistato se anche il piano formativo individuale non è stato stipulato per iscritto oppure non è contenuto nel contratto stesso.
Nel caso in esame, una lavoratrice si era rivolta al Tribunale del lavoro affinché venisse dichiarata la nullità del contratto di apprendistato, chiedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive quantificate anche sulla base del maggior orario di lavoro in concreto osservato.

La Corte d’appello, confermando la sentenza di primo grado e rigettando l’appello proposto dalla dipendente, seppur costatando che il contratto di apprendistato era privo del piano formativo che avrebbe dovuto avere la medesima forma scritta del contratto, tuttavia ha condiviso il ragionamento del giudice di primo grado secondo cui dalla mancanza di tale piano non poteva derivare la nullità del contratto di apprendistato, né tanto meno la conversione dello stesso in contratto ordinario, trattandosi di conseguenza non prevista dalla legge (nel caso di specie era l’art. 2, co. 1, lett. a), DLgs n. 167/2011), né desumibile dal contratto collettivo.

La lavoratrice ha così proposto ricorso davanti alla Corte di Cassazione che ha invece accolto le doglianze della ricorrente, evidenziando che la disciplina applicabile ratione temporis al caso di specie prevedeva l’osservanza della forma scritta del contratto, del patto di prova e del relativo piano formativo individuale da definire, anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali, entro trenta giorni della stipulazione del contratto.

La norma, quindi, richiedeva che fossero stipulati per iscritto sia i contratti di apprendistato che il piano formativo individuale.

La Suprema Corte ha anche evidenziato che l’elemento formativo qualifica la causa stessa del contratto di apprendistato professionalizzante e ciò rende particolarmente stringente la necessità che la volontà negoziale del lavoratore, nell’accedere al tipo contrattuale in questione, si formi sulla base della piena consapevolezza del percorso formativo proposto e della sua idoneità a consentire l’acquisizione della qualifica alla quale l’apprendistato è finalizzato.

Questa soluzione è quella maggiormente idonea a prevenire abusi della parte datoriale nella concreta configurazione del percorso formativo, una volta che il piano formativo individuale risulti cristallizzato nel documento contrattuale e non in un documento esterno al contratto.

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Separazione addebitata alla moglie violenta nei confronti del marito

Il Tribunale di Napoli pronunciava la separazione dei coniugi con addebito all’ex moglie. La decisione veniva confermata in appello dove veniva ritenuto sufficiente a confermare l’addebito un episodio di aggressione da parte della donna nei confronti del marito che, in realtà, costituiva uno dei ripetuti episodi di violenza posti in essere dall’appellante, a seguito dei quali si era consumata la crisi matrimoniale. La Cassazione ricorda che, in tema di separazione dei coniugi, le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole e anche quando siano concretizzate in un unico episodio, non solo la pronuncia di separazione personale, ma anche la dichiarazione dell’addebito.

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Il padre deve contribuire al mantenimento del figlio maggiorenne studente universitario fuorisede

Un uomo veniva citato in giudizio dall’ex coniuge per essere sentito condannato al rimborso delle spese straordinarie sostenute per il mantenimento della figlia maggiorenne, ma non ancora economicamente autosufficiente, comprendenti il canone di locazione dell’alloggio universitario, le spese per un soggiorno di studio all’estero, le spese mediche e la retta di un corso di equitazione. L’uomo resisteva alla domanda sostenendo che si trattava di spese non concordate preventivamente e, comunque, non comprese tra quelle straordinarie. Successivamente il Tribunale competente accoglieva la domanda ma parzialmente, condannando l’uomo al pagamento di una somma, oltre interessi, a titolo di rimborso delle spese sostenute per la locazione dell’alloggio universitario e la retta del corso di equitazione. A seguito di impugnazione della decisione, la Corte di appello rigettava le domande del padre-appellante dopo aver premesso che per spese straordinarie devono intendersi quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli e dopo aver precisato che l’effettuazione delle stesse non richiede la previa informazione o concertazione.

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ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO DELLA MADRE LAVORATRICE IN IPOTESI DI FALLIMENTO DELL’AZIENDA.

La Corte di Cassazione ha stabilito con ordinanza n. 35527/2023 che è illegittimo il licenziamento comunicato alla madre lavoratrice a seguito della dichiarazione di fallimento dell’azienda poco dopo il rientro dal periodo di congedo di maternità obbligatorio e, comunque, entro l’anno dalla nascita del figlio.

I giudici, rigettando il ricorso proposto dall’azienda, hanno dato una lettura più rigorosa del concetto di “cessazione dell’attività” contenuto nell’art. 54 co.3 lett. b) del T.U. Maternità, intendendo lo stesso quale esclusione di ogni possibilità che comporti la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga, avvalorando pertanto il profilo sostanziale e non formale del fenomeno “cessazione”.

Pertanto, nel caso in esame, hanno evidenziato che “la questione dirimente riguarda la verifica se, in ipotesi di una impresa, in cui l’esercizio provvisorio non sia stato disposto né con la sentenza dichiarativa di fallimento, né successivamente autorizzato dal giudice delegato, l’azienda possa o meno considerarsi cessata ai fini dell’operatività della deroga al divieto di licenziamento”.

Alla luce dell’oramai consolidato orientamento giurisprudenziale dell’art. 54, sono previsti limiti precisi e circoscritti per la deroga al generale divieto di licenziamento

“in considerazione del fatto che l’estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato e che tale deroga non può essere interpretata in senso estensivo”

Ne consegue che il licenziamento intimato alla lavoratrice, nella fattispecie, non risponde ai principi richiamati e viene quindi giudicato illegittimo.

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Separazione addebitata alla moglie violenta nei confronti del marito

Il Tribunale di Napoli pronunciava la separazione dei coniugi con addebito all’ex moglie. La decisione veniva confermata in appello dove veniva ritenuto sufficiente a confermare l’addebito un episodio di aggressione da parte della donna nei confronti del marito che, in realtà, costituiva uno dei ripetuti episodi di violenza posti in essere dall’appellante, a seguito dei quali si era consumata la crisi matrimoniale. La Cassazione ricorda che, in tema di separazione dei coniugi, le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole e anche quando siano concretizzate in un unico episodio, non solo la pronuncia di separazione personale, ma anche la dichiarazione dell’addebito.

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